Alcuni mesi fa si è presentata nel nostro centro di psicoterapia una giovane donna molto sofferente per via della perdita prematura del marito, un quarantenne stroncato da un infarto fulminante nel cuore della notte.
Devo riuscire ad accettare questa cosa prima possibile”, è stata la frase con la quale la donna ha concluso il suo lungo e sofferto sfogo durante la prima sessione di terapia. Maria (faremo finta che questo sia il suo vero nome) non tollerava il perdurare della disperazione per la perdita, era molto spaventata dalla possibilità di non riuscire a riprendersi mai più, a smettere di soffrire e, per questo, la sua richiesta era molto netta “Voglio smettere di soffrire prima possibile.
Come non capirla? Quando qualcuno soffre molto è comprensibile che desideri stare meglio, che sia spaventato, che voglia un rimedio immediato ed efficace.
Da psicoterapeuta, ho accolto la sua richiesta e non l’ho messa in discussione in un primo momento perchè capivo che quella richiesta era solo un grido di dolore. Sapevo che, in cuor suo, Maria sapeva benissimo che il dolore che provava per la morte di suo marito era direttamente proporzionale all’amore che provava per lui e che non sarebbe stato facile smettere di soffrire in tempi brevi.
La dura verità che chi ha sofferto per un lutto conosce è che non è possibile accellerare i tempi di elaborazione di un lutto. Non si può spingere, non si può andare più veloce. Il dolore non è un ostacolo sul nostro cammino che possiamo scavalcare. Non c’è modo di accorciare i tempi, anzi, tutte le strategie (anche quelle apparentemente sane) per evitare di soffrire si rivelano essere controproducenti e dannose e quasi sempre hanno il risultato di allungare i tempi fisiologici anzichè accorciarli.
Esiste in rete molto materiale divulgativo che illustra quali siano le fasi di elaborazione del lutto. Il modello più noto è quello di Elizabeth Kubler Ross (La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1976) che distingue cinque fasi nel processo di elaborazione del lutto: la fase della negazione, la fase della rabbia, la fase della contrattazione, la fase depressiva, l’accettazione. Tutti coloro che hanno conoscenza di questo modello o si sono imbattuti nel modello magari a seguito di un lutto, tendono a pensare che il processo di elaborazione del lutto sia un processo lineare. Ebbene, così non è quasi mai.
Se la nostra automobile si rompe in una fredda e piovosa nottata d’inverno noi probabilmente attraverseremo una fase di negazione (“no!non può essere!!”), una fase di intensa rabbia che si trasformerà nel tentativo estremo e disperato di farla ripartire (negoziazione). Poi subentreranno la tristezza e la disperazione (disperazione) e a un certo punto, probabilmente, accetteremo che la situazione è realmente quella e che abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a far ripartire la macchina.
Questo, ovviamente, è ciò che accade con una macchina rotta, un evento che di per sè prevede la possibilità di “rimediare” o di “risolvere” la situazione. Il lutto è un processo ben diverso proprio per la sua stessa natura “irrisolvibile”. Non c’è rimedio alla morte, non si può tornare indietro, l’esito è comunque e sempre permanente. Per questo e per altri motivi ciò che accade alle persone che rimangono è di attraversare le varie fasi del processo elaborativo non in maniera lineare ma in maniera apparentemente casuale ritornando indietro alla fase precedente, a volte, ed evolvendo improvvisamente verso una fase successiva altre volte.
Proprio per via della natura permanente della perdita, arrivare alla fase dell’accettazione non vuole affatto dire smettere di soffrire, anzi, a volte, la fase dell’accettazione è quella nella quale sentiamo il dolore più autentico, più “sano”.
Sebbene le varie teorie sull’elaborazione del lutto indichino dei “tempi” entro i quali il lutto deve necessariamente risolversi altrimenti esiste il rischio di un esito depressivo cronico, la nostra posizione è lievemente differente. Ogni paziente è diverso dall’altro, ogni persona è diversa dall’altra, ognuno ha la sua storia e il suo modo di essere e “forzare” i tempi di ognuno entro schemi precisi e netti rischia di essere fuorviante. A volte, nella storia di un paziente, un momento di estremo dolore che esita in una franca depressione ha un valore evolutivo molto importante, l’importante è riconoscerlo e trattarlo in maniera appropriata dal punto di vista clinico. Vietato dunque, per i terapeuti e per i pazienti, pensare che esistano dei tempi tecnici oltre i quali non sia “lecito” sentire il dolore per la perdita. Ognuno ha i suoi tempi che vanno rispettati, inquadrati nella propria storia e compresi
Il più grande regalo che possiamo fare ai nostri pazienti, amici o familiari che soffrono per la perdita di una persona cara e aiutare loro ad accettare il dolore e spiegare loro che provare quel dolore li aiuterà, prima o poi, a stare meglio.